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CENNI STORICI DELLA VENDEMMIA NEL TERRITORIO BOLOGNESE
Sclava, Sarcula, Garganica, Verdiga, Maiolo, Padernica... Alzi la mano chi ha mai sentito pronunciare questi nomi o chi sa che attinenza hanno con il mondo delle vigne e del vino. Si tratta di alcune delle uve che si coltivavano nel bolognese nei secoli passati: Pier de’ Cres- cenzi, agronomo bolognese (XII – XIV sec.), ne elenca 21 specie: uve bianche e nere, ottime e mediocri, idonee o meno alla vinificazione, adatte a produrre vino da invecchiamento o da bere nell’annata. La Sclava, ad esempio, era un vitigno da uva bianca a germogliamento tardivo ma con maturazione precoce, con acini molto vinosi; era coltivata in collina, con potatura corta e sgorgva vino sottile e chiaro, adatto all’invecchiamento. Tra le uve rosse e nere la Padernica dava vita ad un ottimo vino, ma da consumare entro l’inverno, prima che i calori estivi lo rendessero guasto e acido, così come la Lambrusca, uva selvatica con la quale si produceva un vino poi impiegato per i tagli. La Lambrusca nera si usava per dare colore ai vini e chiarificarli, quella bianca per purificarli e conferire lucentezza. Le fonti citano l’Albana verso l’Ottocento: durante un evento goliardico, la cosiddetta Cena Cypriani; tra i convitati presenti Caino, Abele, Mosè ed altre figure della tradizione cristiana dove ognuno beve il suo vino preferito, come l’apostolo Giovanni che si abbeverò di Albana. Quali caratteristiche avessero quei vini è difficile dirlo, ma è certo che avevano poco in comune con quelli che siamo abituati ad assaporare oggi: le qualità dei vitigni, le procedure di produzi- one, trattamento e conservazione erano molto diverse e perciò i prodotti dovevano scostarsi non poco dalle qualità che oggi fanno eccellere un vino. Le migliori uve da tavola, dette Pergole o Brumeste, venivano raccolte acerbe per ottenere un vino “agresto” usato come medicinale o per fare l’aceto. Al di là delle caratteristiche organolettiche, vi sono però alcuni elementi che si mantengono lungo un arco temporale millenario come la sacralità del vino e il suo consumo ad uso liturgico. Durante i banchetti dell’antichità era una bevanda densa di simboli e legata a precisi rituali, ma il suo utilizzo continuò anche nei convivi medievali. Di vigne nella zona pedecollinare della valle del Samoggia si ha men- zione tra fine VIII - X sec. E si trovano vigne anche a Musiano, presso Pianoro, e poi a Iola, Oliveto, Monteveglio, Crespellano, San Lorenzo in Collina, Elle, Grizzana, Monte Cerere. Si tratta di tutto l’arco collinare a sud della città, dove prevaleva il vigneto specializzato a ceppo basso, con località anche della media montagna. Nel Medioevo, infatti, si producevano vino e olio anche a quote oggi sconsigliabili, poiché la difficoltà e il costo dei trasporti imponeva una certa autarchia. La produzione e il commercio erano strettamente controllati: nessuno poteva vendere uva acerba o prima dell’inizio della vendemmia (l’usanza voleva che a pigiare l’uva fossero solo uomini con piedi puliti, mai donne), giorno che veniva fissato ufficialmente negli Statuti. L’uva veniva mostata sul posto e poi condotta alla cantina del proprietario in grosse botti dette castellate. Dal contado il vino giungeva in città per lo smercio, che avveniva nella curia di Sant’Ambrogio, l’attuale via de’ Pignattari sulla destra di San Petronio, sotto il controllo di particolari figure, dette brentatori. Il loro compito era quello di assaggiare il liquido, per certificare che non fosse adulterato o di scarsa qualità, e quantificarlo tramite apposite misure vinarie (la quartarola e i suoi sottomultipli). Il Pignoletto (fonte del Tanara), veniva prodotto con Uve Pignole, coltivate sulle colline bolognesi, ma poco adatte alla vinificazione. Inattendibile il riferimento ad un vino chiamato Pinus Laetus da Plinio il Vecchio (I sec. d.C.). Altri vitigni autoctoni sono il Negrettino (citato col nome di Maiolo) che ha ancora un limitatissima produzione a Sasso Marconi. Se ne ricava un vino dolce, molto amato e beverino, un tempo considerato terapeutico poiché assicurava una facile digestione. L’Albana Nera era invece coltivata nel bolognese già nel Seicento, anche se la maggior produzione avveniva in Romagna. Altri vitigni minori o autoctoni coltivati tra collina e pianura erano, infine, l’Albana bianco, il Montù bianco, l’Alionza bianco, l’Angela bianca, la Maligia bianca e la Forcella.
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